Dalla chimica arriva un aiuto fondamentale per difendere il patrimonio culturale degli aborigeni australiani. Un team internazionale, che comprende anche gli scienziati dell’Università di Pisa, ha infatti analizzato i materiali utilizzati dagli artisti aborigeni.

L’obiettivo è di permettere ad archeologi e restauratori di conservare al meglio le opere e i manufatti, ma anche instaurare dei paralleli con le tecniche artistiche occidentali. I materiali esaminati sono in gran parte  essudati vegetali, come resine o gomme, di cui sino ad oggi si conosceva la composizione chimica in modo piuttosto approssimativo.  Lo studio pubblicato negli Atti della National Academy of Sciences è stato condotto con un nuovo metodo a raggi X ad alta energia che ha rivelato la struttura molecolare di alcuni campioni di essudati  conservati presso musei e istituzioni dell’Australi meridionale.

“Il nostro contributo – spiega la professoressa Ilaria Bonaduce dell’Università di Pisa – è stato quello di assistere e validare la nuova tecnica basata sui raggi X, la spettroscopia che studia lo scattering Raman dei raggi X, tramite l’impiego di tecniche di analisi molecolare basate sulla spettrometria di massa”.

Ilaria Bonaduce fa parte di un gruppo di ricerca dell’Ateneo pisano che da anni si occupa di ricerca nell’ambito della chimica analitica finalizzata alla comprensione e conservazione dei beni culturali e archeologici (https://scich.dcci.unipi.it/).

“Lo studio chimico di un manufatto storico artistico – spiega Bonaduce –  può raccontarci il grado di avanzamento tecnologico, la dieta, identificare tratte commerciali, pratiche religiose e attività quotidiane di una società antica. Inoltre, la conoscenza della composizione chimica dei reperti archeologici e artistici permette di valutarne lo stato di conservazione, di identificare processi di degrado in atto, di assistere nell’allestimento delle condizioni espositive e di pianificare gli approcci conservativi”.

Oltre all’Ateneo pisano hanno partecipato allo studio l’Ufficio della Scienza del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, il SOLEIL in Francia e tre laboratori del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica, l’Université Paris-Saclay, l’Università di Melbourne, la Flinders University e l’Australian Synchrotron International Synchrotron Access Program.


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